PATRIMONIO CULTURALE

Storie,leggende e miracoli

Nella mission della nostra associazione troviamo all'art.2 punto G:"Attività volte alla ricerca, recupero, divulgazione,valorizzazione del patrimonio culturale,delle tradizioni ....". Non poteva mancare sul nostro sito una pagina sul pittore Cosimo Damiano Sampietro, riservandoci di realizzare in futuro ancora altre iniziative sullo straordinario artista.

Per la presentazione dell'artista vi inviatiamo a visitare il blog di Katya Madio di cui il seguente link

Dall'archivio di stato ricaviamo che : Cosimo Damiano Sampietro nasce a Roccaforzata (Ta) nel 1856 e morì a Bernalda nel 1949. Nel 1880 conobbe e convogliò a giuste nozze con   la bernaldese Margarita Annunziata, figlia di Giocondo Margarita e Teresa Denittis . Dalla loro unione vennero alla luce 8 figli, Grazia Giuseppina(1883), Teresa(1884),Adelaide maritata Brizio (1886), Lucia maritata Raho(1889), Giuseppe (1890), Maria Addolorata(1893), Maria Addolorata(1895) , Giocondo (1897).

L'artista ha un lunghissimo periodo di attività,sia nel campo delle pittura che nel camp della fotografia, in tante case di Bernaldesi sono presenti le sue opere e soprattutto in tante chiese della Basilicata, Calabria e Puglia. 

La presenta pagina è in costruzione, abbiamo in corso interventi di ricerca di materiale al fine di allestire iniziative finalizzate "alla divulgazione,valorizzazione del patrimonio culturale". Pagina in costruzione

         

nelle immagini solo alcune delle tantissime opere di Cosimo Sampietro

 

da Bernalda.nnet

Trascorse la prima infanzia a Lecce ed ereditò dal padre l'arte del disegno. Autodidatta, visse nell'età giovanile del suo lavoro, dipingendo ritratti e Madonne. Verso il 1880, fu chiamato per decorare alcune stanze del "Palazzo Guida" a Bernalda dove poi si sposò e si stabilì definitivamente. Continuò a dipingere ad olio su commissione. Realizzò tele enormi per le chiese di Bernalda e d'altre città del Sud. I soggetti religiosi mostravano una qualità estetica in sintonia con la spontaneità creativa della scuola di Fontainebleau.
A Bernalda sono di notevole effetto, nella chiesa del Convento, le grandissime tele ad olio "La discesa dello Spirito Santo" e "Le anime del Purgatorio".
Ottimo ritrattista e paesaggista, Cosimo Sampietro arricchì le pareti di molte case ed ancora oggi in abitazioni private si possono ammirare paesaggi, volti sereni e tristi e Madonne.

 

Gli anziani sono le nostre radici, la culla del nostro passato, lo scrigno della nostra storia.

Un Paese, senza radici, senza passato, senza storia è un Paese senza identità e quindi senza un presente e inevitabilmente senza un futuro.

La nostra associazione ha intrapreso la strada della ricerca e della conservazione dei ricordi attraverso le testimonianze dei nostri anziani. Sul grano abbiamo tante testimonianze di anziani ,in tanti ci hanno  purtroppo ci hanno lasciato, ma di loro conserviamo gelosamente  le registrazioni dei loro racconti, la cui sintesi è presente nel nostro opuscolo 100 anni di grano a Bernalda.

In questo articolo si vuole divulgare il rito funebre a Bernalda nell’ultimo secolo. Lo facciamo riportando i ricordi di una persona anziana, quasi 93enne, E.G.. I suoi ricordi risalgono alla sua infanzia, quindi al ventennio fascista.

Esordisce dicendo la cosa che forse gli è rimasta piu impressa. “Non esistevano agenzie funebri, quindi tutto era gestito dalla famiglia e dagli amici del quartiere, che al momento del bisogno erano sempre pronti a supportare tutto il vicinato. Il vicinato e i parenti provvedevano a lavare e vestire la salm. In casa c’erano sempre , in un posto ben preciso che solo  i familiari conoscevano, i vestiti e soprattutto le scarpe nuove, mai usate, quelle per  l’ultimo viaggio, tutto stirato e pronto all’uso.

La bara delle persone del popolo era piuttosto semplice , in legno grezzo non trattato, fatta in poche ore dai falegnami locali, non coibentata, quindi senza zinco.

Delle donne che piangevano a pagamento, le cosiddette prefiche o le piagnone, io ne ho sentito solo parlare  dagli anziani di allora, ma a Bernalda già durante il ventennio non c’erano più, almeno secondo i miei ricordi, ma delle donne che spontaneamente, senza retribuzione, piangevano in maniera straziante, coinvolgendo tutti, quelle me le ricordo bene.Durante la veglia, accompagnata da lodi, venivano ricordate le qualità e le attitudini al lavoro del caro scomparso. A mezzanotte la salma veniva lasciata sola, si pensava infatti che allo scoccare della lancetta gli angeli scendessero sulla terra per portare con loro l’anima del morto.

Il feretro era portato in spalla, non c’erano carri funebri (almeno per il popolo) , dalla casa del defunto fino alla chiesa del Convento o  Chiesa madre e dopo un messa piuttosto veloce, il corteo funebre proseguiva lungo Corso Umberto fino all’incrocio di via Nuova Camarda. Arrivati all’incrocio fatidico, quindi nei pressi della storica Cisterna di San Francesco, il corteo funebre si scioglieva, i maschi si toglievano tutti il berretto, chinavano la testa,segno della croce e salutavano il defunto per l’ultimo viaggio.

Ultimo viaggio che  era veramente complicato, in quanto dall’incrocio fino al cimitero la distanza è di 1,2km. Tutta via nuova Camarda era solo  brecciata alla meno peggio e via della Concordia  era completamente sterrata. Queste due strade  in inverno erano difficoltose da percorrere ,anche a piedi ,a causa del fango ed in estate della polvere. Le bare per fortuna non erano pesanti quanto quelle attuali, ma occorrevano almeno otto persone di buona volontà e della stessa altezza per percorrere una simile distanza.

L’ARMA:
“D’azzurro al bue d’argento portante in bocca delle spighe d’oro, e sormontato da tre stelle dello stesso, ordinate in fascia. Queste ultime però han preso il posto di un sole anche di oro, ch’era l’arma dei Bernauda” .
In realtà, originariamente, l’arma (lo stemma) presentava, al posto delle stelle e del sole, e prima di questi, un giglio, retaggio evidente del periodo angioino e di più antichi feudatari, mentre il bue (in realtà un toro o un vitello) sormontava tre monti; ciò è possibile, ancor oggi, osservare, scolpito in pietra, sopra una lapide del XVI sec. posta sotto l’antica torretta dell’orologio situata nell’attuale Corso Italia, nei pressi della, non più esistente, cappella dedicata alla Madonna delle Grazie e prospiciente la, parimenti scomparsa, piazza pubblica.

Nella mission della nostra associazione  al comma C dell'art.2 è riportato:  Diffondere e promuovere la conoscenza del territorio attraverso la progettazione, attuazione e gestione di interventi rivolti alla tutela e alla valorizzazione dei beni naturali e culturali presenti nel territorio. Le nostre numerose attività sono la dimostrazione del nostro impegno in tal senso. Questo sito, sempre più visualizzato, è diventato una vera banca dati del nostro patrimonio culturale.  Ed è, nel contempo, uno spazio aperto per contribuiti che possano ancora di più arricchire la conoscenza e la divulgazione della la nostra storia

Non potevano mancare nel nostro sito  il Barone Consalvo de Bernaudo e sua figlia Cornelia, signori di Bernalda, rispettivamente figlio e nipote del fondatore Bernardino (o Berardino) de Bernaudo.

La loro storia è incredibile, meriterebbe una sceneggiatura per una rappresentazione teatrale o cinematografica. L'amico avv. Francesco Montemurro, sostenitore della nostra associazione, ha realizzato un saggio storico veramente straordinario sui personaggi de Bernaudo, un lavoro di ricerca importante durato due anni, tra archivi nazionali e spagnoli, un saggio che non può mancare nelle librerie di tutti i bernaldesi ,e non solo,  impegnati  nella valorizzazione  del nostro patrimonio culturale.

 

L'articolo che segue è una sintesi fatta dall'avv. Montemurro sui De Bernaudo.

Il Barone De Bernaudo eretico del Cinquecento e l'infelice matrimonio di sua figlie Cornelia. (Francesco Montemurro) Il libro può essere ordinato al seguente link :             https://cacuccieditore.it/montemurro-francesco 

Un personaggio sicuramente significativo della storia di Bernalda è il barone Consalvo Ferrante de Bernaudo (1500? - 1578), feudatario delle terre di Bernauda (Bernalda) e Montacuto (ora Montaguto in provincia di Avellino) dal 1520 al 1562 e poi, a seguito della morte della figlia primogenita Cornelia a cui donò in dote i due feudi,  dal 1566 sino al  gennaio 1578.

Consalvo Ferrante, figlio del nobile e famoso Berardino de Bernaudo, cosentino,  segretario delle Maestà Cattoliche aragonesi, si distinse per la sua partecipazione nel movimento valdesiano a Napoli, nel controverso periodo della Riforma e Controriforma.

La  nascita di Consalvo, quasi insperata, avendolo avuto il padre in tarda età, va a colmare la morte del fratello primogenito Gianluigi Consalvo viene battezzato a Napoli dal Gran Capitano spagnolo Gonzalo Fernandez  (Consalvo Fernando) da Cordoba.

Vivendo sostanzialmente a Napoli, sul finire degli anni 40 del Cinquecento, Consalvo iniziò a frequentare il teologo Juan de Valdes, uomo affascinante dalle belle fattezze e grande capacità di persuasione. Intorno allo spagnolo si riunisce una  parte importante della aristocrazia napoletana (Galeazzo Caracciolo che fuggirà a Ginevra, Giulia Gonzaga, Cesare Carduino, Gian Francesco Alois … ).

Il Valdes propugnava una fede intimista, spiritualista, senza mediazioni gerarchiche, prediligendo le letture di San Paolo. In realtà non consigliò mai  i suoi seguaci di staccarsi dalla Chiesa Cattolica, piuttosto li invitò a simulare di essere cattolici praticanti, pur non riconoscendo alcun valore all’autorità papale, alla confessione, al rispetto dei digiuni.

Il Nostro Consalvo iniziò sempre di più ad essere persuaso dalle idee di Juan de Valdes. Dopo la morte di Juan de Valdes a Napoli, Consalvo  divenne  un vero riferimento per i seguaci valdesiani, assumendo posizioni pubbliche sempre più imprudenti e anche oltranziste rispetto al pensiero originario del suo maestro. I suoi convincimenti diventeranno spiccatamente luterani e, per alcuni aspetti, anche calvinisti.

Alcuni degli incontri tra i seguaci di Juan de Valdes si svolgevano nel palazzo di Consalvo de Bernaudo, in largo san Giovanni a Carbonara a Napoli.

Nel luglio 1551, sotto il papato del discusso Giulio III, il vicere’ di Napoli, don Pedro de Toledo, scriveva preoccupato a Carlo V dicendo che il barone de Bernaudo stava creando agitazione  e disobbedienza con la sua setta e andava fermato  perché: “se questi baroni non rispettano Dio  e la religione come si potrà pretendere che rispettino Sua Maestà e le sue leggi?”

Consalvo venne arrestato nella notte del 18 settembre del 1552. In quella data l’inquisitore Giulio Antonio Santori  ordinò  una vera e propria retata di altri seguaci valdesiani.  Consalvo venne prelevato dal suo palazzo e portato nel carcere della Vicaria a Napoli. Gli sequestrarono il denaro che custodiva in casa e il cofanetto cilindrico dove conservava le sue lettere. Torturato e interrogato verrà condotto a Roma per essere processato. Gli atti processuale parlano di una  secta del barone Bernaudo.

In carcere, per le sue cattive condizioni fisiche, fu finalmente visitato da un medico, alla presenza dell’inquisitore Miche Ghislieri, che diventerà il futuro papa Pio V (1566-1572)

Dopo quasi due anni di carcere, nell’aprile del 1554, il barone, fu costretto ad abiurare subendo la condanna al carcere perpetuo nella “sua casa”, cioè agli arresti domiciliari, al pagamento di una ingente multa di 1500 scudi e alla confisca di un terzo dei suoi beni. Queste le imposizioni: pentirsi sincero corde, non frequentare altri eretici, non leggere ne conservare  i libri proibiti, non mangiare carni e latticini nei giorni proibiti,  far dire messa nella sua casa tutti i giorni, di confessarsi quattro volte all’anno.

Non rispetterà nessuna delle imposizioni della sentenza.

Subirà nel 1563 un secondo processo, legato alla  vicenda del matrimonio della figlia primogenita Cornelia, con il potente  spagnolo Juan de Soto.  Questi, totalmente invaghito della fanciulla, farà di tutto per sposarla. In principio subirà un netto rifiuto in quanto Consalvo desiderava far sposare la figlia ad un nobile. Il de Soto non si diede per vinto. Acquistò, infatti, il titolo di baronia da un certo Giovanni Geronimo de Gennaro, barone di Marzano ma l’acquisto del titolo non venne ratificato, cioè accettato da Carlo V.

Pertanto il matrimonio sembrava sfumato. Tuttavia Juan de Soto non si arrese. Continuò a ricattare il  barone Consalvo de Bernaudo. Cornelia diventò merce di scambio. La sua mano in cambio della liberta del barone stesso e di quella di due suoi amici valdesiani, Gian Francesco Alois e Bernardino Gargano, nobili casertani. Consalvo de Bernaudo inizialmente non cedette. Tale atteggiamento indusse Juan de Soto a diventare ancora più spietato e determinato. Denunciò infatti per eresia i due nobili casertani che vennero così arrestati.  Consalvo, temendo per la sua vita,  accettò di concedere la mano di sua figlia Cornelia.

Accadde tuttavia un vero e proprio colpo d scena. Cornelia, detestando in maniera assoluta Juan de Soto,   prese una posizione di dissenso al matrimonio molto coraggiosa. Scrisse una lettera al Vicerè di Napoli implorandolo “l’avesse fatta levare da casa de suo patre e fattala andare in alcun loco securo dove avesse potuto dire la sua volontà”. Il Vicerè, Pedro de Ribera, accettò tale richiesta, facendola rapire dai suoi uomini. Cornelia fu condotta nel Maschio Angioino!

Appresa la notizia il De Soto andò a protestare veementemente contro il vicerè, accusandolo di avergli fatto perdere l’onore, rapendo la sua futura sposa.  Il Vicerè replicò dicendogli: “Cosa credi, che io non renda  la giustizia?”

 Tuttavia il matrimonio si celebrò ugualmente nell’autunno del 1562. Si rivelerà un matrimonio infelice. La povera Cornelia, che, come detto,  aveva fatto di tutto per sottrarsi al matrimonio, morirà nel 1566.

Nonostante avesse tenuto fede alla sua promessa, il barone de Bernaudo venne arrestato nel 1563 e  Il 5 gennaio 1568, nella chiesa della di Santa Maria sopra la Minerva a Roma,  abiurò pubblicamente riuscendo a salvare la sua vita.

Fu condannato alla carcerazione perpetua, prevista per un massimo di 8 anni secondo il codice inquisitoriale. Probabilmente visse i suoi anni finali in un monastero, comunque in uno stato di detenzione..

Quello del barone Consalvo de Bernaudo è uno dei pochi casi nella storia dell’Inquisizione in cui si consentì all’eretico di abiurare per la seconda volta, senza subire la condanna a morte. Il Nostro barone morirà, come detto nel 1578.

Juan de Soto si rivelerà un infido personaggio Una visita ispettiva del cardinale Quiroga inviato a Napoli da Filippo II, lo smaschererà come un  pessimo soggetto, imbroglione e ricattatore.

L’Alois  e il  Gargano furono decapitati e i loro corpi bruciati il 4 Marzo 1564 in piazza del Mercato a Napoli. L’esecuzione causò gravi tumulti nella città campana.

 

 

Mariapia Malvasi, frequentante il III Liceo  Scientifico "M.Parisi" di Bernalda, dà il suo contributo al nostro blog, alla conoscenza ed alla valorizzazione del nostro territorio redigendo un brano "Il Mito della fondazione di Metaponto" . Il racconto è tratto da “LA BASILICATA” di F. Di Sanza – (1928).

           Una leggenda narra che dopo la caduta di Troia, alcuni sopravvissuti, per sfuggire alla vista di macerie e rovine, cominciarono a navigare verso mete ignote imboccando rotte marine altrettanto sconosciute.  

          Tra i superstiti spiccavano due figure, quella di un vecchio saggio di nome Nestore e quella di Epeo, il prodigioso costruttore dell’infido cavallo di legno. Insieme navigarono verso Pilo, su una vecchia nave che sussultava quando era in balia di onde alte e violente, producendo uno sciabordio intenso, ma allo stesso tempo assordante. Le assi di legno dell’imbarcazione talvolta scricchiolavano sotto i loro piedi annunciando che il timone stava cedendo e la nave, ormai senza più direzione, era dominata dalle onde.    

            La navigazione continuò per tutta la notte tra i mille ostacoli che solo una burrasca poteva causare. Mentre la luna lasciava il posto al sole, il cielo cominciava a rischiararsi macchiandosi di lunghi batuffoli di cotone dai colori caldi. Alcuni uccelli volavano bassi e furtivi tingendo l’alba come piccole macchioline nere. Nella visuale dei naviganti, finalmente, dopo tutto il tempo trascorso, intriso di speranze per vedere qualche terra, apparve un isolotto roccioso. Esso fu raggiunto grazie alle raffiche di vento che soffiavano verso quella direzione.

            I marinai arrivarono sulla costa con le vesti lacere e sanguinanti. L’ultimo uomo a lasciare il battello fu il Re. Improvvisamente, da un anfratto, fece capolino una donna che si gettò ai suoi piedi per chiedere aiuto. Era Menalippa, che, avendo sposato segretamente Nettuno, era stata accecata e relegata nell’isola solitaria, privata dei due figli che secondo la volontà del padre Eolo, dio dei venti, dovevano essere abbandonati in aperta campagna per essere il pasto delle belve.  Quando nel cielo tornò a splendere il sole, illuminando quella terra triste e desolata, i greci, sotto la guida esperta di Epeo, ripararono i vari intacchi della nave.  In un mare calmo, somigliante ad una tavola, ripresero la navigazione e dopo due giorni approdarono alla foce di un fiume a loro estraneo. Insieme si spinsero nell’entroterra, con la speranza di incontrare dei pastori, per cercare di capire dove si trovassero e ricevere delle indicazioni per riprendere il viaggio verso mete più conosciute.      

             Le ricerche durarono fino al tramonto e i natanti si stancarono di camminare in luoghi disabitati senza ottenere le informazioni auspicate. Inaspettatamente, si avvertirono dei gemiti provenire da un terreno sassoso e incolto. I marinai tesero  le orecchie per sentire meglio e capire cosa fossero e intuirono che si trattava dei lamenti di due bambini allattati da una mucca: erano i figli di Menalippa. Si udì un grido acutissimo della donna che non più cieca per volere degli Dei, appena riconobbe i suoi piccoli, gioiosa di rivederli insieme sani e salvi, li strinse a sé in un caloroso abbraccio con la delicatezza e la premura che solo una madre ha nei confronti dei suoi pargoletti, dimostrando l’amore materno che mancò per un periodo di tempo, ma che avrebbe accompagnato i suoi figli durante tutta la loro vita. 

              Qualche tempo prima, la vista dei due bimbi addolcì anche il cuore di un giovane pastore della zona, il quale spiegò di aver disubbidito al volere del dio Eolo e di aver curato i piccoli affidandoli di giorno ad una mucca mansueta e riparandoli di notte nella sua capanna. Dopo aver ringraziato il buon pastore per le attenzioni dedicate ai piccoli, tutti insieme fecero ritorno alla nave per affrontare un altro lungo viaggio combattendo contro le intemperie del mare. Le acque erano agitate, arrabbiate, ribelli, le onde si increspavano infrangendosi contro gli scogli creando una schiuma bianca, contrapposta al colore tetro del cielo che minacciava un’irreversibile bufera. Sembrava che il mare volesse vendicarsi per un torto precedentemente subito, sprigionando tutta la sua forza ed energia acquistata durante i periodi di calma. L’ira di Eolo cominciò a divampare senza limiti. Il dio dei venti smosse una furiosa tempesta che scaraventò la nave contro gli scogli provocando terrore e incredulità negli animi dei natanti. Questi cercarono in tutti i modi di salvarsi da quel mare in burrasca che somigliava ad un mostro, ma non tutti ebbero la stessa forza e nemmeno la stessa fortuna.  Nestore e i superstiti arretrarono di qualche centinaio di metri fino a toccare una zona lussureggiante dove fondarono l’odierna città di Metaponto.                 

             Intanto, i figli di Menalippa, Eolo e Beoto, crebbero con un’immensa devozione nei confronti di Nestore ed Epeo. Alla loro morte furono seppelliti, con tutto l’oro che avevano portato da Troia, sotto una delle colonne del tempio di Hera che Nestore aveva fatto costruire. Dopo alcuni decenni furono eseguiti degli scavi nella zona, presso la nona colonna del tempio, ai piedi di un fico, e furono rinvenute gli avanzi di ossa di due cadaveri, probabilmente appartenenti agli scheletri di Nestore ed Epeo.

                 La leggenda narra che le radici del fico erano talmente profonde che penetravano sin sulla volta di un mulino sotterraneo che incessantemente macina l’oro di Troia. Quando i pastori sentivano l’ululo del vento, il mugghio del mare e il cupo fragore del Bradano e del Basento che assordavano la piana di Metaponto, vivevano ore di pena e si affrettavano ad abbandonare la zona perché tali rumori erano provocati dal mulino che frantumava l’oro e prediceva gravi eventi. Il mito della fondazione di Metaponto fu tramandato di generazione in generazione dai pastori che all’epoca abitavano in quella zona.

Mariapia Malvasi